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Avv. Emanuela Malatesta
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È ormai consolidato l’orientamento che limita l’applicazione del principio di rotazione degli inviti o degli affidamenti alle procedure negoziate (di recente Sez. V, 13 ottobre 2020, n. 6168). L’art. 36, comma 2, del Codice dei contratti pubblici, prevede, infatti, che le stazioni appaltanti hanno sempre la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie. Ciò indica che la norma che impone l’applicazione del principio di rotazione prefigura una chiara contrapposizione tra procedure ordinarie aperte e procedure negoziate (disciplinate dall’art. 36 cit.); in queste ultime, il principio di rotazione funge da contrappeso rispetto alla facoltà attribuita all’amministrazione appaltante di individuare gli operatori economici con i quali contrattare. Pertanto, come emerge anche dalle linee-guida dell’ANAC (n. 4 del 26 ottobre 2016, aggiornate con delibera 1 marzo 2018, n. 206), quando l’amministrazione procede attraverso un avviso pubblico aperto a tutti gli operatori economici, non deve applicarsi il principio di rotazione, perché si è fuori dalle procedure negoziate.
Pertanto, seppure la procedura descritta presenti profili peculiari (che finiscono col forgiare una sorta di procedura mista, ordinaria e negoziata, che si colloca al di fuori di quelle tipiche previste dalla legge), non ricorre la ratio che caratterizza il principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti, il quale – in attuazione del principio di concorrenza – ha la finalità di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente, la cui posizione di vantaggio nello svolgimento della procedura deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento, che potrebbe consentirgli di formulare una migliore offerta rispetto ai concorrenti, soprattutto nei mercati in cui il numero di operatori economici non è elevato (in tal senso si veda il parere del Consiglio di Stato, Commissione speciale, 12 febbraio 2018, n. 361, sulle «Linee guida» dell’Anac aggiornate sulla base delle disposizioni del d.lgs. n. 56 del 2017).
Essendo assimilabile a una procedura ordinaria o comunque aperta al mercato, alla procedura in esame non è applicabile il principio di rotazione (in tal senso, da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 22.02.2021 n. 1515)
No. L’art. 59 comma 1 del d.lgs. 50/2016 (nuovo Codice Appalti), rubricato “Scelta delle procedure”, dispone espressamente il divieto di ricorso all’affidamento congiunto della progettazione e dell’esecuzione di lavori.
La norma lascia salvi i soli casi di:
- affidamento a contraente generale,
- finanza di progetto,
- affidamento in concessione,
- partenariato pubblico privato,
- contratto di disponibilità.
Soltanto nei predetti casi è dunque ancora possibile bandire un appalto integrato.
Si. Tra imprese facenti parte di uno stesso RTI è possibile cumulare gli importi di fatturato di ciascuna impresa, al fine di soddisfare il requisito di capacità economico-finanziaria richiesto dal bando di gara.
Cumulare gli importi di fatturato posseduti da ciascuna impresa, nell’ambito di un raggruppamento, significa ampliare la possibilità di partecipazione alle gare pubbliche per i concorrenti dotati di minore esperienza e/o fatturato (così ANAC, Parere di Precontenzioso n. 31 del 13/02/2014).
Tuttavia, il bando può individuare l’eventuale misura minima e/o massima entro cui i requisiti devono essere posseduti dai singoli membri del raggruppamento.
Ciò significa che possono essere cumulati i requisiti di fatturato tra imprese dello stesso raggruppamento soltanto a condizione di:
- verificare che la mandataria possegga i requisiti in misura maggioritaria rispetto alle mandanti;
- verificare, sul bando e/o disciplinare di gara, la previsione di eventuali misure (minime e/o massime) entro cui ciascuna impresa del gruppo è tenuta a possedere i requisiti richiesti.
Il socio accomandante non ha una partecipazione attiva nella gestione della società. Questa circostanza, infatti, ovvero una diretta partecipazione alle attività aziendali comporterebbe, sotto il profilo legale, l’equivalenza del socio accomandante al socio accomandatario, che per legge riveste il ruolo di amministratore ed è socio illimitatamente responsabile per le obbligazioni societarie. Diversamente, il socio accomandante, risponde esclusivamente nei limiti della propria partecipazione, correndo quindi il rischio di perdere il solo capitale investito.
Questa distinzione è rilevante poiché la situazione di dissenso potrebbe degenerare in un conflitto tra soci potenzialmente problematico rispetto al quale ogni ulteriore parere deve essere rimandato alla disamina degli atti societari e dello Statuto.
Il diritto di recesso è possibile solo in presenza di determinate condizioni indicate dallo Statuto della società.
Se lo Statuto della società lo prevede, si può esercitare il c.d. “recesso ad nutum” di cui all’art. 2285 comma 1 del codice civile, ossia a semplice richiesta del socio, senza bisogno di fornire motivazioni e offrire un giustificato motivo. Il recesso, in questi casi, avviene comunicando la propria volontà di recedere agli altri soci con preavviso di almeno tre mesi; non è richiesta alcuna forma particolare (talvolta è sufficiente anche un comportamento concludente conseguente a una semplice dichiarazione verbale).
Se lo Statuto non prevede, invece, questa specifica facoltà, allora si potrà esercitare il recesso per giusta causa (articolo 2285 comma 2 del codice civile), se ricorrono i relativi presupposti, quali ad esempio la violazione di obblighi contrattuali, la violazione dei doveri di fedeltà, lealtà, diligenza o correttezza inerenti alla natura fiduciaria del rapporto sottostante.
Il recesso del socio può ritenersi sorretto da giusta causa solo quando costituisca legittima reazione ad un comportamento degli altri soci illegittimo e pregiudizievole del rapporto fiduciario esistente tra le parti del rapporto societario. In tal caso, la giusta causa dovrà essere specificata nella comunicazione di recesso.
Qualora lo Statuto non preveda il recesso immediato nè sussista una giusta causa, vi è comunque la possibilità per il socio che intenda recedere di accordarsi con gli altri soci per uscire dalla compagine societaria.
Tale accordo potrà manifestarsi o tramite l’acquisto della stessa partecipazione del socio recedente oppure addebitandosi il relativo costo direttamente alla società.
Conseguenza del recesso è la liquidazione della quota al socio uscente. Dallo scioglimento del rapporto sorge il diritto del socio o dei suoi eredi a vedersi restituita la somma corrispondente al valore della quota, la cui liquidazione è fatta in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento. Il pagamento della quota spettante al socio deve avvenire entro sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto.
L’art. 2284 c.c. sancisce che, in caso di morte di uno dei soci, i soci superstiti devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano. A sua volta, in relazione alla ragione sociale, l’art. 2292 c.c. prevede che: “La società in nome collettivo agisce sotto una ragione sociale costituita dal nome di uno o più soci con l’indicazione del rapporto sociale. La società può conservare nella ragione sociale il nome del socio receduto o defunto, se il socio receduto o gli eredi del socio defunto vi consentono”.
Gli eredi, dunque, possono consentire la permanenza del nome del socio defunto nella ragione sociale della s.n.c.: a tale proposito, la Suprema Corte di Cassazione ha altresì precisato che “In tema di società di persone, la modifica della persona dei soci e della ragione sociale non comporta l’estinzione della società e la nascita di un nuovo soggetto, costituendo le società di persone soggetti di diritto distinti dai soci e, come tali, centri autonomi d’imputazione di situazioni giuridiche ad esse immediatamente riconducibili” (Cass. civ. n. 18409/2014). Naturalmente, pertanto, il subentro dell’erede nella s.n.c. non comporterà di per sé la necessità di modificare la partita iva della società.
Orientamenti contrapposti si registrano, viceversa, con riguardo alla ragione sociale: ed infatti, parte della dottrina interpreta i due commi del summenzionato art. 2292 cod. civ. in modo autonomo ed indipendente, affermando che, se da un lato è ben possibile, con il consenso degli eredi, mantenere nella ragione sociale il riferimento al socio defunto, dall’altro sarebbe pur sempre necessario, ai sensi del primo comma della disposizione, modificare la ragione sociale aggiungendo il nome di almeno un socio attuale. Quest’ultima, seconda opzione sembrerebbe peraltro preferibile per ragioni di tutela del legittimo affidamento del terzo in ordine all’effettiva composizione della compagine societaria.
È possibile impugnare (o annullare) un testamento in due ipotesi: quando il testamento è nullo oppure è semplicemente annullabile.
Un testamento è da ritenersi nullo quando è contrario a norme imperative di legge oppure presenta dei difetti di forma che ne rendono incerta l’autenticità.
Esempio di nullità per difetto di forma: il testamento cosiddetto olografo che non è stato scritto interamente dal defunto di suo pugno oppure non è stato firmato è nullo. Esempio di nullità perchè contrario a norme imperative di legge: chi lascia in eredità il patrimonio alla figlia a condizione che sposi una persona da lui stesso designata; tale testamento lede una libertà fondamentale della persona e pertanto è nullo.
La possibilità di impugnare un testamento per nullità non ha limiti di tempo (azione imprescrittibile
Diverso è il caso del testamento lasciato da un soggetto ritenuto o dichiarato malato di mente o incapace di intendere e di volere oppure il caso di chi è stato ingannato o costretto.
In queste ipotesi il testamento è annullabile ma il termine per impugnarlo è di cinque anni che decorrono, nei casi di incapacità, dalla data di esecuzione del testamento (ad esempio da quando il notaio legge il testamento davanti agli eredi e procede alla distribuzione dei beni), mentre nel caso di inganno o costrizione dal giorno in cui tale circostanza viene scoperta.
In ogni caso, sia in caso di nullità che annullabilità, in mancanza di un accordo tra le parti, ci si deve rivolgere all’Autorità Giudiziaria con l’assistenza di un Legale.